Le relazioni interumane sono imprescindibili per la salute psichica dell’uomo. Sembra scontato, ma vale la pena porre l’accento sulla necessità primordiale dell’essere umano di essere in relazione ai suoi simili, in una società, quella cosiddetta “occidentale” o per lo meno “occidentalizzata”, preda di una deriva individualistica esasperata e senza precedenti.
In questo senso è particolarmente interessante come due film della cinematografia del nuovo millennio, trattino questo argomento, basandosi su storie apparentemente agli antipodi e per certi versi “estreme”.
In Cast Away (di Robert Zemeckis, 2000) un uomo, miracolosamente sopravvissuto ad un disastro aereo, si trova suo malgrado naufrago su un’isola deserta. Il paradiso tropicale, moderno “mito” della fuga dalla complicata ed estraniante società contemporanea, si rivela però presto una “prigione” senza via di fuga.
Novello Robinson Crusoe, il protagonista deve innanzitutto imparare a lottare per la propria sopravvivenza in un ambiente selvaggio. Persino un dente cariato può diventare un’improvvisa e terribile minaccia.
Ma presto si palesa come per il sopravvissuto la minaccia più temibile di tutte sia la solitudine.
Solitudine che spinge il protagonista, impersonato magistralmente da Tom Hanks a dare fattezze antropomorfe ad un pallone da pallavolo recuperato tra i reperti del naufragio che la corrente ha portato sull’isola, battezzato scherzosamente col nome di “Wilson” in funzione della marca che vi è sovraincisa.
Con Wilson il nostro eroe parla, si confida, intrattiene una autentica relazione.
Tuttavia, com’è ovvio che sia, questa relazione non riesce a lenire il senso di alienazione del naufrago, che dopo aver aspettato per anni l’arrivo dei soccorsi o di una imbarcazione di passaggio e dopo un infruttuoso e quasi mortale tentativo di abbandonare l’isola-prigione su di una rudimentale zattera, si trova di fronte ad un imponente dilemma esistenziale: restare sulla terraferma, solo ma vivo, o costruire una nuova zattera, e sfidando i flutti, gli elementi e la sorte, tentare di ritornare tra i propri simili.
Ed è quest’ultima la strada che percorrerà, portando Wilson con sé, naturalmente.
Straziante ed emblematica la scena in cui, dopo giorni in mare aperto, il pallone cade in acqua, e lo stremato protagonista si tuffa nel disperato quanto vano tentativo di recuperarlo, rischiando la propria vita.
Raggiunta a fatica la zattera, si abbandona al pianto: ha perso il suo unico amico.
Di lì a poco, il nostro verrà salvato, vincendo la sua scommessa.
Into The Wild (di Sean Penn, 2007), ispirato al romanzo “Nelle Terre Estreme” di John Krakauer, narra la storia realmente accaduta di Christopher McCandless, un ragazzo ventiduenne benestante, che decide di intraprendere un viaggio attraverso i grandi spazi dell’america selvaggia, con lo scopo dichiarato di approdare in Alaska, lontano dalle relazioni umane, che a suo dire, risultano inutili e false.
Si lascia alle spalle la famiglia, in particolare una coppia genitoriale in perenne conflitto ed emotivamente distante rispetto alle istanze affettive dei figli (c’è anche ana sorella minore), oltre ad una laurea in antropologia e storia, che seppur conseguita con ottimo profitto, sembra rappresentare l’ennesima delusione e motivo di polemica per il padre che lo avrebbe preferito sulla via di un’occupazione più sicura e remunerativa.
Il viaggio è puntellato di incontri con una serie di personaggi che per un motivo o per l’altro si affezionano al ragazzo, chi per amicizia, chi per amore, chi perché rivede in Christopher qualcuno che ha perduto, e tentano di dissuaderlo affettuosamente dal proposito di raggiungere l’Alaska, offrendogli di rimanere con loro.
A tutti, il protagonista ribadisce la sua teoria sulla futilità delle relazioni interumane, rinunciando a molteplici occasioni “riparative”, in grado di compensare ciò che la famiglia non è stata in grado di trasmettergli.
Tutto il film è percorso da questo dilemma: in fuga dalla solitudine o alla ricerca della libertà?
La soluzione sembra venirci comunicata dallo stesso protagonista al termine del film, in forma di epitaffio: stremato dalla fame e dal gelo, impossibilitato a tornare indietro per lo scioglimento dei ghiacci che ha trasformato i sentieri in fiumi tumultuosi e invalicabili, ed infine avvelenatosi ingenuamente ingerendo bacche di dubbia natura, il protagonista scrive una frase memorabile sul suo diario, poco prima di morire, “la felicità è reale solo se condivisa”.
Un messaggio, purtroppo, valido soprattutto per i posteri.
I due film in esame affrontano il tema della solitudine dell’essere umano, pur trattandola da un’angolatura quasi speculare: se nel primo caso si tratta infatti di una condizione forzata, nel secondo si parla di una scelta. Ma in entrambi i casi gli autori e con loro i protagonisti sembrano giungere ad una medesima conclusione: la vita dell’Uomo è una “vita di relazione”,
vale a dire che in assenza di relazioni con gli altri la vita sembra perdere il suo significato intrinseco. Naturalmente le relazioni, quando disfunzionali, possono portarci a negarne il valore stesso, in quanto causa di sofferenza, delusioni, e sfiducia negli altri, facendoci allontanare dalle persone. Soprattutto se a risultare fallimentari, perlomeno sul piano empatico, risultano essere le relazioni di accudimento primario, vale a dire quelle con i nostri genitori.
Ed è proprio a queste problematiche che si rivolge il lavoro della psicoterapia, percorso di relazione tra due persone, paziente e terapeuta, che si propone lo scopo primario di migliorare la qualità delle relazioni della persona, e di riportarla al centro del proprio mondo, insieme agli altri.
Riccardo Selleri